Parafrasando un concetto giornalistico che lega al titolo il successo di un articolo, quanto un packaging brutto non fa comprare un cosmetico ottimo e quanto una confezione bellissima fa acquistare senza riflessione un prodotto non particolarmente performante? Una domanda da un milione di dollari alla quale cosmetologi, esperti di Ricerca e Sviluppo e luminari del marketing tentano di dare risposta ogni giorno.
GIOCHI D’EQUILIBRIO
Partendo dal presupposto che il packaging è un potente (a volte determinate) strumento di comunicazione, viene spontaneo affermare che la migliore difesa è l’attacco. Così, meglio far nascere insieme prodotto e pack specialmente se si tratta di cosmesi dove certamente l’estetica è un fattore dominante, ma dove il consumatore sta diventando sempre più attento ed esigente. “Quando progetto un prodotto lo visualizzo già sullo scaffale di un negozio o di un supermercato – spiega Elisabetta Casale, farmacista cosmetologa, docente universitaria a Milano, Ferrara e allo Iulm e specializzata nel marketing cosmetico – . Ma serve trovare il giusto equilibro tra tutte le esigenze: sul tavolo inizialmente vengono messi tutti i “desiderata” e si procede per esclusione guardando alla formula, quindi alla compatibilità dei materiali, all’usabilità e al posizionamento: ci dobbiamo domandare a chi sarà destinato il nostro prodotto. In altre parole, chi è la nostra buyer persona?”
LUNGA VITA AL PACKAGING
I consumatori e il mercato di riferimento (lusso? mass market?) guidano la scelta delle forme. E non è un caso che l’aspetto bio anche nel packaging sta diventando un must. “L’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale sta diventando sempre più preminente, ma occorre prestare attenzione a non commettere scivoloni: tutto deve essere realizzato con coerenza – sottolinea Casale –.Occorre anche sviluppare una sensibilità sui tempi dell’innovazione: alcune soluzione potrebbero non essere comprese proprio perché non è ancora il loro momento, perché non c’è ancora un humus in grado di saperla accogliere”.
Un esempio sono i prodotti solidi o quelli “nude”, dove il packaging di fatto è sparito, ma che possono indurre nel consumatore l’idea di un prodotto “povero”. “Credo che in futuro le due soluzioni sostenibili più in crescita saranno i “refill” e la cosmetica anidra, cioè senza acqua – spiega Casale – Soprattutto nella detersione; ma anche nel make up ci potrebbero essere palette usa e getta: spesso il packaging è talmente bello e innovativo che è un peccato gettarlo tra i rifiuti, questo sarebbe un modo per salvarlo. Certo, poi si aprono una serie di questioni legate alla sicurezza, contaminazione, pulizia dei contenitori. Tutti argomenti che chi crea packaging dovrà affrontare”.
QUESTIONE DI IDENTITA’
Qualsiasi sia la scelta, la regola numero uno da rispettare è quella di non perdere mai di vista la propria identità: “Il packaging racconta l’azienda – afferma Casale – Non a caso alcuni pack sono diventati iconici tanto che le aziende non si discostano mai da quella forma, pur modernizzandola e attualizzandola”.
Un esempio su tutti il flacone di Chanel numero 5. In altre parole, la riconoscibilità paga, sempre. “Un packaging non conforme e non coerente all’identità dell’azienda o al messaggio che l’azienda vuole inviare è un grande errore, purtroppo molto comune. Scivoloni commessi per la frenesia di volere innovare ad ogni costo ma che fanno perdere in termini di vendite – afferma l’esperta –. L’uso dei colori, di materiali e di forme condizionano l’acquisto, non è una scoperta, ma occorre fare scelte equilibrate e che raccontino davvero ciò che si vuole comunicare. Per questo prodotto e pack devono nascere insieme, essere in simbiosi. Altri errori riguardano l’usabilità: se un packaging è stato progettato male e presenta difetti nel suo utilizzo il rischio è quello di minare pesantemente il riacquisto: il consumatore non torna più sui suoi passi e a quel punto è difficile recuperare”.