Quali sono le potenzialità della cosmetica Halal Made in Italy?
Enormi perché l’economia islamica – prodotti e servizi influenzati dall’etica islamica – tocca diversi settori: alimentare, chimico, farmaceutico, abbigliamento, turismo, ricreazione e, naturalmente, anche il mondo cosmetico. Ed è proprio sul mondo Halal e sulle sue potenzialità per i cosmetici Made In Italy che si è concentrato il webinar di oggi, promosso dal Polo della Cosmesi e realizzato in collaborazione con Halal Quality Control Italia e FourH.
QUALCHE DATO
“Il mondo Halal è un bacino di potenziali consumatori molto interessante. I musulmani costituiscono il 23,4% della popolazione mondiale (24.8% in Asia-Oceania, il 91.2% nel Medio-Oriente e in Nord Africa, il 29.6% nell’Africa sub-sahariana, circa il 6.0% in Europa, e lo 0.6% nelle Americhe. e la religione islamica è la seconda più diffusa nel mondo con oltre 1 miliardo di fedeli in Asia e oltre 60 milioni nel Vecchio Continente (soprattutto in Francia e UK, dove rappresentano il 10% e il 4% della popolazione). In Medio-Oriente e nel Nord Africa si concentra il 91,2% della popolazione islamica, ma i musulmani sono presenti anche anche in Asia-Oceania (24,8%), nell’Africa sub-sahariana (29.6%), in Europa (circa 6,0%) e nelle Americhe (0,6%)”, spiega Rosita Losurdo, Co-founder di FourH, agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione. “Non dimentichiamoci poi che i precetti del Corano influenzano non solo la sfera religiosa, ma lo stile di vita delle persone e, quindi, anche i loro consumi. Escludendo la finanza, il valore dell’economia Halal è stimato intorno ai 2,3 miliardi di dollari e, seppur toccata anch’essa dagli effetti della pandemia del 2020, si prevede che la spesa della comunità islamica raggiungerà i 2,4 miliardi di dollari entro il 2024 con un tasso di crescita del +5,3%”.
UN MERCATO DA MILIARDI DI DOLLARI
E se ancora ci fossero dei dubbi sull’importanza della cura di sé per le donne musulmane, è la legge islamica a volerlo: curare il proprio aspetto è un modo per avvicinarsi a Dio. Non è un caso che le donne musulmane dedichino grande attenzione alla cura del corpo, al make-up (in particolare quello degli occhi, punto focale del viso) e ai capelli che, essendo trattenuti dal velo, necessitano di cure specifiche. Un business che vale miliardi e che non conosce crisi. Nonostante la battuta d’arresto dovuta alla pandemia e la flessione registrata nel 2020, entro il 2024 la spesa per i cosmetici della popolazione islamica dovrebbe raggiungere i 76 miliardi di dollari con un tasso di crescita vicino al +3%.
Gli avvenimenti del 2020 non hanno fatto altro che accrescere l’interesse verso il mondo Halal anche da parte del mondo occidentale.
“La pandemia ha portato a importanti cambiamenti nei consumatori e nelle strategie delle aziende – prosegue Rosita Losurdo – . Mentre i consumatori si sono fatti più attenti e sensibili verso le tematiche della sostenibilità ambientale, etica e inclusività, le aziende hanno cercato canali di vendita alternativi a quelli tradizionali (e-commerce in primis) e nuovi mercati di sbocco. Molti brand si sono orientati verso gli Emirati Arabi o verso il sud est asiatico, dove vive un’alta percentuale di popolazione islamica e dove, in molti casi, per operare occorre avere la certificazione Halal. Le aziende si trovano di fronte a due strade: certificare dei prodotti esistenti o creare prodotti ad hoc. Due strade ugualmente praticabili. C’è chi, come Nivea, ha certificato alcuni prodotti già in commercio e altri che hanno sviluppato prodotti specifici per questo mercato”.
I DRIVER DI CRESCITA
Di certo è che il bacino di utenti di questo tipo di prodotti è in costante crescita e le ragioni sono molteplici. In primis, pesa l’influenza delle nuove generazioni, consumatori attenti, consapevoli, alla ricerca di uno stile di vita globalizzato nel rispetto dei precetti della legge islamica; ma anche l’attività di sensibilizzazione svolta da molti top brand e marchi del lusso (quasi dieci anni fa Dolce& Gabbana lanciò sul mercato il suo primo burkini, il costume da bagno islamico costituito da copricapaco, casacca e pantaloni); senza dimenticare le strategie governative e le politiche commerciali di diversi Paesi. Un insieme di elementi che hanno concorso – e concorrono- alla continua crescita dell’Halal nel mondo.
CERTIFICAZIONE HALAL: MARKETING O NECESSITA’?
Oltre a domandarsi se sia meglio certificare un prodotto esistente o se invece sia meglio creare prodotti certificati Halal ex-novo, le aziende devono riflettere anche su come utilizzare la certificazione Halal per scopi commerciali e valutare attentamente quando certificarsi. Meglio anticipare la domanda del mercato, acquisendo così un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza e facendosi trovare già preparati di fronte ad un potenziale cliente, oppure aspettare la richiesta di un cliente e coprire con la prima fornitura i costi iniziali?
“Per rispondere a queste domande occorre precisare che la certificazione Halal, oltre ad essere una necessità imposta da alcuni governi e quindi un requisito indispensabile per chi vuole esportare in paesi come Indonesia, Malesia, Emirati Arabi, Turchia, rappresenta un’interessante leva di marketing per intercettare una fascia di consumatori attenti ai principi etici e ai nuovi trend di consumo, non necessariamente di fede islamica – commenta Haithem Hedhli, CEO di FourH – . Non solo. Se oggi la certificazione è obbligatoria solo in alcuni paesi, in futuro sarà sempre più richiesta nel mondo. Qualche esempio? Singapore, paese dove il 15% della popolazione è musulmana, sarà uno dei prossimi a renderla obbligatoria, così come ci aspettiamo che lo faranno Marocco, Egitto, Tunisia, Algeria”. La strada è tracciata.
HALAL: COSA É LECITO E COSA NON LO É
Ma che cosa sono i prodotti Halal? Come si ottiene la certificazione? Quali sono gli enti certificatori seri e accreditati nel mondo?
Con termine Halal, che in arabo significa “lecito”, ci si riferisce a quei prodotti cosmetici, alimentari, chimici e farmaceutici, realizzati nel rispetto delle norme etiche e igienico-sanitarie della Shariah, la giurisprudenza islamica. Ciò che non rispetta questi parametri viene definito Haram, impuro, considerato illegale e quindi bandito.
La questione, però, è complessa perché il rispetto dei precetti coranici non riguarda solo gli ingredienti presenti nel prodotto – nel nostro caso, in un cosmetico – ma interessa il processo produttivo e l’intera supply chain: ovvero dall’approvvigionamento delle materie prime fino alla distribuzione. Packaging compreso.
DIVERSI ENTI, DIVERSI STANDARD
“Occorre fare chiarezza su cosa sia “lecito” e cosa non lo è e su quali materie prime possono essere utilizzate e quali no, anche se non esiste uno standard Halal universale ma ogni ente ha uno standard proprio – spiega Anis Youssef, Manager di HQC Italy, ente autonomo di certificazione Halal riconosciuto a livello internazionale e con 7 sedi in Europa -. Dei punti fermi, in linea generale, ci sono. Un cosmetico, ad esempio, per essere Halal non deve contenere: carne suina e derivati; derivati di animali ammessi della religione musulmana, ma non macellati secondo il rituale prescritto o morti prima della macellazione; alcol etilico, sostanze inebrianti, OGM (anche se non tutti gli standard sono concordi su questo punto) o sostanze ritenute dannose per la salute”.
LA CERTIFICAZIONE: COSTI E OPPORTUNITA’
Un pool di sostanze che un ente certificatore serio è in grado di evidenziare e segnalare al produttore. E la scelta dell’ente è un fattore chiave, che deve tener conto dei costi e della lingua, ma anche dei paesi nei quali l’ente è accreditato. Il rischio, infatti, è quello di dover rifare la certificazione e ripagare in toto i servizi.
“La certificazione si articola in due fasi: stage 1- iter di controllo dei documenti e stage 2- visita ispettiva nel sito produttivo – prosegue Youssef -. Come pre-requisiti all’avvio della procedura di certificazione Halal dei prodotti cosmetici, che può essere annuale o interessare solo un lotto di produzione, richiediamo all’azienda l’adozione agli standard SMIIC4:2018 e il rispetto delle GMP. La certificazione Halal impone: l’assoluto rispetto delle indicazioni Halal nel processo produttivo (l’azienda dev’essere in grado di provare l’assenza di cross-contaminazione delle materie prime o dei prodotti Halal con sostanze o prodotti non certificati); la tracciabilità del prodotto (l’azienda deve dar prova che le materie prime impiegate sono idonee alla produzione Halal); il rispetto del protocollo Halal Quality Assurance, che prevede la creazione di un team Halal dedicato all’interno dell’azienda, la costituzione di un manuale specifico e la partecipazione del team a corsi di formazione specifici. Ultimo step: l’etichettatura, che dev’essere fatta anch’essa secondo specifici standard Halal”.
Un iter, di certo, lungo e complesso. E se è giusto che un’azienda si chieda se valga la pena certificarsi Halal, ecco la risposta: sicuramente, per la sua complessità, la certificazione Halal richiede una struttura a supporto e forze ad essa dedicate i cui costi devono essere valutati attentamente, ma è altrettanto vero che potrebbe rivelarsi la carte vincente per entrare in mercati globali dai grandi, anzi grandissimi, numeri. A voi, l’ardua sentenza.