Abbiamo rivolto alcune domande a Strategic Management Partners, che ha curato l’analisi di scenario, definendo l’outlook del settore ed evidenziando i trend e le priorità per il top management, della nuova edizione del Report Cosmesi del Sole 24Ore Ricerche e Studi.
La prima buona notizia è che il settore è in buona salute e supererà i 100 miliardi di dollari entro la fine del 2023. Boom dei prodotti naturali (+7% annuo) che raggiungeranno i 17,3 Mrd nel 2027.
Nel 2027 il giro d’affari complessivo supererà i 125 Mrd di dollari, di cui 24 solo in Europa; in Italia si prevede una crescita della cosmetica del 24% tra il 2019-2027, con un boom dei prodotti naturali che da 170 Mio nel 2021 passeranno a 200 nel 2027.
E sul fronte merceologico? Ecco che cosa ci dobbiamo aspettare per il prossimi anni. Buone – anzi buonissime- le performance del lusso, i cui ricavi aumenteranno del 43% entro il 2027, e dello skincare, che crescerà del 32% toccando i 180 Mrd di dollari, seguito dalle fragranze (+25%) e dal personal care (+16%).
COSMESI IN CRESCITA NEL 2022
Analizzando i dati di chiusura del 2022, per la cosmetica si osserva un andamento positivo con ricavi in crescita dell’8% (2022/2021). Bene anche la domanda interna – che supera gli 11,5 Mld (+8,5%) – e l’export (+15%), nonostante le incertezze legate al conflitto Russia e Ucraina, agli aumenti dei costi e alle difficoltà nel reperimento delle materie prime e di altri componenti strategici per il comparto.
Sul fronte dell’export, oltre a Cina e Turchia, lo sguardo si sposta a Ovest dove cresce il peso dell’America Latina, che oggi rappresenta circa il 15% del mercato mondiale della cosmetica e degli articoli da bagno, e si guarda con interesse a Brasile, Colombia e Cile. Per capire meglio le dinamiche del settore e le evoluzioni in atto, abbiamo rivolto alcune domande ad Andrea Passaquieti, Director in Strategic Management Partners e ad Alberto Salini, partner in Strategic ed esperto di Supply Chain.
E’ vero che l’Italia è uno dei principali produttori di cosmetici nel mondo?
Andrea Passaquieti: Assolutamente sì. In Italia, la cosmetica rappresenta un vero e proprio motore trainante dell’economia. Nel 2022, secondo le stime preliminari, il fatturato totale dell’industria cosmetica italiana ha superato i 13 miliardi di euro, registrando una crescita del 12% rispetto all’anno precedente. Questo è un dato significativo che evidenzia la forza che caratterizza il settore.
Le previsioni per il 2023 sono altrettanto positive, con un fatturato stimato superiore alla soglia dei 14 miliardi di euro.
A livello europeo l’Italia è considerata il terzo sistema economico nel settore della cosmesi, posizionandosi dopo la Francia e la Germania. Questo significa che l’Italia è uno dei principali attori nell’industria cosmetica europea in termini di produzione, vendite e contributo all’economia.
La posizione di rilievo dell’Italia nel settore cosmetico è il risultato di diversi fattori, tra cui l’ampia presenza di aziende cosmetiche italiane con una lunga tradizione e esperienza nel settore, l’attenzione alla qualità dei prodotti, l’innovazione e il design distintivo.
Le aziende cosmetiche italiane, infatti, investono circa il 6% del fatturato in R&D per creare formule all’avanguardia e design distintivi. Inoltre, la tradizione artigianale italiana e l’attenzione per la cura dei dettagli conferiscono ai prodotti ulteriore valore aggiunto.
I dati sull’export rafforzano il ruolo significativo che l’Italia ricopre nel commercio internazionale nel settore cosmetico. Rispetto al 2021, si è registrato un aumento del 15,8%, con un totale di 5,6 miliardi di euro dove le previsioni per il 2023 indicano un ulteriore incremento del 10%, portando l’export ad oltre 6 miliardi di euro. Questi dati evidenziano l’importante contributo dell’industria cosmetica italiana all’economia nazionale e il suo impatto significativo nel mercato globale.
In sintesi, il settore si caratterizza per la sua solidità economica, la crescita costante del fatturato e l’eccellenza nelle competenze e nella produzione. L’attenzione alle esigenze dei consumatori, l’innovazione e la qualità dei prodotti continuano a essere i principali driver del successo dell’industria cosmetica italiana.
È vero, se ho ben compreso, che il modello lean è superato? Perché?
Alberto Salini: Per rispondere a questa domanda è importante specificare cosa si intende per “modello lean”. Quando parliamo di catena della fornitura, il modello lean cui facciamo riferimento non è tanto quello di origine giapponese, tipico della aziende manifatturiere, finalizzato alla massima efficienza dei processi interni.
Ci riferiamo piuttosto a quell’approccio alla gestione delle forniture e delle relative scorte, sia di materie prime (MP) che di prodotti finiti (PF), particolarmente aggressivo, finalizzato alla massima riduzione del capitale immobilizzato e dei relativi oneri finanziari, che negli ultimi vent’anni ha rappresentato il modello di riferimento per tutti gli Uffici Acquisti.
Questo approccio, estremamente utile ed efficace in tempi di crescita economica globale e di sviluppo, anche delocalizzato, ha mostrato tutti i suoi limiti al cambio di corso ed in presenza di contrazione e rischi inattesi.
La mancanza di un “paracadute” ha generato significativi problemi alle forniture ed oggi più che mai si è resa evidente la necessità di avere un piano B per minimizzare i rischi: scorte di sicurezza più alte, governance dei trasporti con scelte più costose ma più veloci, catene della fornitura alternative, ecc.
Il modello “lean” è sostituito da un più cauto e robusto modello “sound”, la cui finalità è il giusto trade-off tra efficienza ed efficacia dell’intera catena: le scorte mantengono un margine di sicurezza adeguato alle aspettative della fabbrica o del business, il parco fornitori è meglio geolocalizzato e mai centrato su fornitori unici, la pianificazione è condivisa in modalità collaborativa e costantemente aggiornata, i buyer si occupano di market scouting e sourcing piuttosto che di gestione amministrativa degli ordini, ecc.
Insomma si rafforza la catena in tutti i suoi punti, con vista a medio periodo, eventualmente anche a discapito di qualche punto di efficienza immediata, perché come ricordava C. Barnard “una catena è forte quanto il suo anello più debole”.
Nel Report si parla di “accorciare” la filiera e della tendenza a privilegiare fornitori più “locali”… è corretto?
Sì. Accorciare la filiera è proprio uno dei possibili passaggi verso un modello “sound” della catena della fornitura.
Dopo qualche decennio di strenua ricerca del miglior costo assoluto, generalmente inversamente proporzionale alla distanza della fornitura, oggi si torna a parlare di re-shoring non solo nella produzione ma anche nella supply chain.
Fornitori localizzati a minor distanza dai siti produttivi o dai magazzini distributivi rappresentano una scelta economicamente vantaggiosa e contribuiscono a costruire il piano B che consente di minimizzare i rischi. Inoltre, se opportunamente combinati con fornitori più lontani, rappresentano un benchmark concorrenziale che aiuta i buyers degli uffici acquisti a spuntare condizioni economiche vantaggiose, contribuendo ad attivare il volano dell’efficienza economica complessiva.
In sintesi, accorciare la filiera attraverso il re-shoring implica il trasferimento delle attività produttive o di fornitura vicino al mercato di destinazione, con l’obiettivo di ottenere vantaggi come una maggiore efficienza, qualità migliorata e una migliore gestione dei rischi, per non parlare delle maggiori opportunità che questo processo può generare per il tessuto economico italiano che tanto ha perso in questi decenni e che potrebbe ora invertire la tendenza, contribuendo a generare ricchezza per il Paese.