Cosa provano oggi i consumatori? Quali sono i sentimenti che fanno da sfondo allo scenario globale attuale? Conoscere le risposte a queste domande è fondamentale per chi fa prodotti o propone servizi, perché consente di capire quali sono le sfide e le opportunità che li aspettano. Non solo. Permette di capire in che modo le aziende possono rispondere a questi bisogni. Saperli soddisfare sarà la grande linea di demarcazione fra chi crescerà e chi, invece, soccomberà alla crisi.
WGSN, agenzia di trend globali, ha individuato 4 sentimenti globali che avranno un’influenza diretta sui consumi nei prossimi anni: paura, de-sincronizzazione, resilienza e ottimismo. Quattro diverse attitudini che guideranno i consumi del prossimo futuro.
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PAURA
Benché la paura sia un sentimento che si manifesta in maniera differente a seconda delle generazioni, ci sono dei timori che accomunano tutte le età: i due più grandi riguardano l’ambiente e l’incertezza economica.
Dando un rapido sguardo alle notizie giornaliere (agitazioni politiche, disastri ambientali, fluttuazioni economiche e, più di recente, la pandemia globale) non c’è da stupirsi se nel mondo stia crescendo la paura e stia divenendo un tratto comune non solo di un’area geografia, ma di un’intera generazione.
L’ECO-ANSIA
L’eco-ansia, cioè la cronica paura per l’impatto del surriscaldamento globale sul pianeta sta crescendo. E non solo in Occidente. Già nel 2019 una ricerca condotta da WGSN rivelò che il 90% degli intervistati era preoccupato per il proprio futuro a causa dell’emergenza ambientale.
In varie parti del mondo, come in India, USA, Australia e Cina, si misura quotidianamente lo stato della qualità dell’aria (AQI). In base ai dati raccolti, i genitori limitano le attività all’esterno dei bambini e ciò sta portando ad una progressiva diminuzione dell’attività fisica e della socialità di bambini e teenager. Ma non tutto è perduto. Mentre negli adulti la paura è una prigione, nei giovani diventa il motore per una lotta al cambiamento.
L’INCERTEZZA ECONOMICA
L’incertezza economica non è una novità. Se ne parla da oltre un decennio, da quel “terremoto” economico del 2008 che ridisegnò lo scenario globale. A poco è servito che, nel tempo, ci sia stata una crescita di molti Paesi: nel 2019 la paura legata all’incertezza economica continuava ad aumentare. Ad alimentarla ulteriormente ci ha pensato la recente pandemia, che ha condotto ad una grave crisi economica globale e all’acuirsi della disoccupazione e della povertà.
Secondo uno studio condotto da MassMutual nel 2018, il 54% degli Americani pensava che la sicurezza economica fosse irraggiungibile. La Federal Reserve ha riportato che il 40% degli adulti americani non è in grado di sostenere una spesa inaspettata di 400 dollari. E un quarto di loro teme di portarsi i debiti nella tomba.
Questa paura potrebbe presto trasformarsi in un sentimento globale e interessare anche le generazioni future. Secondo il white paper dell’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development), i Millennials inglesi e americani stanno uscendo dalla classe media, a seguito del collasso della prosperità generale.
IL CONTAGIO EMOTIVO: LA PAURA SCORRE NELLE VENE
Quali sono i sentimenti e le paure che si stanno facendo largo in molti Paesi e stanno minando la crescita e la stabilità economica? Che costa sta succedendo tra i consumatori? La risposta si chiama contagio emotivo: una manifestazione caratterizzata dall’imitazione del comportamento di un’altra persona che vive l’emozione in modo diretto. Accade quando il sentimento di altri contagia anche noi, come un virus sociale. Il contagio emotivo cambia la nostra percezione della realtà, quello che scegliamo di fare e il modo in cui guardiamo gli altri; favorisce l’allarmismo, la manipolazione, le reazioni istintive e pulsionali.
IL RUOLO DEI MEDIA
E nell’era digitale tutto questo è amplificato. I sentimenti corrono velocemente su scala globale e alcune emozioni corrono più velocemente e più lontano di altre. Un recente studio sul contagio emotivo e sulla viralità online ha mostrato che gli articoli più condivisi del NY Times negli ultimi 3 mesi sono stati quelli che hanno suscitato “emozioni forti”, come rabbia e paura.
Dal 2008, le piattaforme social, i servizi diretta web e i devices sempre connessi sono cresciuti esponenzialmente. E il contagio emotivo ha iniziato a dilagare anche nelle aree più economicamente stabili del mondo. Ciò è divenuto particolarmente evidente con la pandemia, che ha portato ansia e un clima di costante incertezza. Questo si è manifestato attraverso un crescente panico, la diffusione di fake news sulla salute e numerosi episodi di sciacallaggio.
In casi come quello del coronavirus si parla di “euristica della disponibilità”. Le persone tendono a orientare pesantemente i loro giudizi su argomenti oggetto di informazioni più recenti, facendosi nuove opinioni condizionate dalle ultime notizie. E così succede di dare maggior peso alle notizie che riguardano i morti, la disoccupazione e la crisi economica.
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SOCIETA’ DE-SINCRONIZZATA
In tempi di incertezza, la gente desidera stabilità e routine, ma sembra invece andare nella direzione opposta. Gli stessi ritrovati tecnologici che offrono un certo livello di convenienza (consegna del cibo H24, spedizione in giornata) e di produttività ( forza lavoro globale, uffici dotati di una certa flessibilità) hanno come risultato quello di “de-sincronizzare” la società.
Una società de-sincronizzata è quella in cui le persone continuano a fare la maggiore delle cose che facevano prima, ma non più nello stesso momento in cui lo fanno altri. La dimensione spazio-tempo si fa individuale e frammentata. La gente continua a lavorare molto, forse anche di più, ma lo standard 9-18, 5 giorni a settimana ha perso la sua egemonia. La gente guarda ancora le news o legge ma non lo fa più necessariamente alle 19, dopo il lavoro, davanti alla tv.
Questa de-sincronizzazione gioca un ruolo chiave nella distruzione delle comunità a causa della mancanza delle interazioni umane. Andare in posta, in palestra, a fare la spesa – momenti di socialità che una volta erano programmati e condivisi, ora stanno scomparendo rapidamente.
E con la perdita di queste interazioni quotidiane, le comunità si stanno frantumando. Il coronavirus ha esacerbato questo processo eliminando le attività quotidiane dalle città, lasciando i centri vuoti e rendendo la vita normale qualcosa di alieno e astratto.
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UNA GIUSTA RESILIENZA
Nell’attuale scenario di incertezza e accelerazione di alcune dinamiche, non sorprende che la resilienza- la capacità di un individuo di affrontare e superare eventi traumatici o un periodo di difficoltà – stia divenendo rapidamente una priorità emotiva. Tanto che l’OMS ne ha fatto il tema centrale della sua agenda politica nel 2020. A livello globale, sta crescendo il sentimento di resilienza.
App come Resilientme o Happify invitano la gente ad essere più resiliente. Il paradosso della resilienza è che invita una persona ad essere positive e a mantenere emozioni e pensieri positivi mentre stanno vivendo un periodo di difficoltà o di grande stress. Le ricerche mostrano che la costruzione di una resilienza ci si arriva solo affrontando le sfide. Ma c’è un rischio dietro l’eccessiva positività. Secondo uno studio dell’ Emotion Journal del 2019 “la spasmodica ricerca della felicità può trasformarsi in un’ossessione ed essere causa di infelicità”.
NON SOFFOCARE LE EMOZIONI NEGATIVE
Essere positivi a tutti i costi e focalizzarsi solo sulle cose positive, rigettando qualsiasi cosa possa causare emozioni negative, è sbagliato. Perché anche le emozioni negative possono essere utili. Diversi studi hanno mostrato che le persone che sanno affrontare le emozioni negative sono quelle anche più capaci di negoziare, di prendere decisioni, con matrimoni più stabili e meno soggette ad infarto; persone che vivono di più e più in salute. Non è un invito al pessimismo, ma il contrario. Nel 2022, i consumatori cercheranno di convivere con le proprie emozioni e si prenderanno il tempo per metabolizzarle. Il Coronavirus ha dato alla gente il tempo per riflettere, e mentre la paura si faceva strada, la gente ha lavorato insieme per un futuro più positivo.
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OTTIMISMO RADICALE
Sembra che nel 2020, ci sia molto per cui temere. E che il mondo abbia perso speranza. Ma un cambiamento è in corso, e per il 2022, un rinnovato ottimismo si farà largo facendoci riscoprire gioia e piacere.
L’ottimismo non è superato – è ribellione e in certe occasioni una forma di coraggio.
E’ DAVVERO TUTTO NERO COME SEMBRA?
Nel 2018 lo psicologo cognitivo Steven Pinker nel suo libro “L’illuminismo adesso: in difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso” mostrava come la maggior parte delle persone in Australia, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, UK e in molti altri Paesi nel mondo pensasse che il mondo stava andando verso il baratro piuttosto che migliorare.
Eppure non è davvero così. Dati e numeri alla mano- Pinker mostrava i giganteschi passi avanti compiuti in ogni campo: nell’aspettativa di vita, nella tutela della salute, nella riduzione della fame, nella crescita e nella distribuzione della ricchezza, nella riduzione delle disuguaglianze, nell’affermazione della pace e nella difesa della sicurezza, nell’accesso alla conoscenza e nelle chance di felicità.
Nonostante questo, ci sono ancora degli aspetti negativi su cui occorre intervenire? Certamente. Possiamo fare qualcosa per migliorare il futuro delle prossime generazioni? Senza dubbio.
REALTA’ VS FINZIONE
Il coronavirus ci ha condotto in uno stato di ansia, ma nonostante questo dobbiamo essere consapevoli che non tutto è perduto. In realtà quello che davvero stiamo perdendo è la capacità di distinguere tra ciò che è reale da ciò che è fake. Siamo nel bel mezzo di una crisi epistemica. Dalle pseudo verità alle fake news, stiamo dando sempre più credito a informazioni false e sommarie. In un crescente catastrofismo, alimentato dai media, si enfatizza ciò che è cattivo e sbagliato. E le notizie positive passano in secondo piano, come se non fossero importanti o si dessero per scontate.
La conferma arriva da Our World in Data, centro di ricerca con base all’Università di Oxford: “Il numero di persone che vive in condizioni di estrema povertà (con un salario giornaliero inferiore ad 1.90 dollari) nel 1990 era di 2 miliardi del 1990, nel 2015 era scesa a 700 milioni. Ma in questi 25 anni non c’è stato un giornale che abbia dato una notizia, dal titolo:”Nel mondo ogni giorno ci sono 137.000 persone in meno che vivono in condizioni estrema povertà”.
In tempo di crisi, dobbiamo focalizzarsi su quello che è vero, non su quello che vende.
L’articolo è a cura di WGSN, società che si occupa di previsioni di mercato e di tendenze a livello globale. Per maggiori informazioni, contattare riccardo.carducci@wgsn.com